Il Carnevale di Sappada – Plodar Vosenòcht

L’Avviso della Deputazione Comunale, il documento di cui si è detto sopra, risalente all’anno 1864, è volto a garantire il buon ordine morale, politico e sociale nel periodo carnevalesco; dalle disposizioni che sono elencate, possiamo ricavare, se non dati precisi, alcuni elementi utili per delineare i caratteri del Carnevale sappadino.

Ad esempio, quando si deplora il fatto che nei giorni di Carnevale ci sia da parte «omissis …degli osti, dei bettolieri e caffettieri»ma anche «…omissis… dalla odierna gioventù un aperto abbuso, senza rispetto alle leggi e alle Autorità …omissis…», possiamo cogliere l’atmosfera particolare di quei giorni lontani nel tempo.

Ci dice poi che erano in uso le feste da ballo, animate dai suonatori, poiché il nostro documento le vieta sia nelle osterie, sia nelle botteghe e prevede delle multe, oltre che per i partecipanti, anche per i musicisti, nel caso avessero avuto luogo senza la necessaria autorizzazione.

Anche l’utilizzo delle maschere, probabilmente non solo il travestimento ma anche la maschera facciale, era subordinato alla richiesta della licenza da parte dell’Autorità politica locale. Sappiamo inoltre che c’era un controllo sul tipo di mascheramenti perché non offendessero le Autorità, la religione ed il costume.

Certo, non abbiamo informazioni riguardo al tipo di maschere e ai travestimenti, però, dall’esame del testo, risaltano evidenti due elementi tipici dei Carnevali: la sregolatezza, cioè, un comportamento che non tiene conto delle norme che valgono nella vita comune e il ballo, che in passato era uno svago consentito solo in rare occasioni.

Ancora oggi, le persone più anziane ricordano come il Carnevale fosse un momento tanto atteso durante l’intero anno perché portava una ventata di libertà e di allegria nella dura vita di allora.

Anche per le donne il Carnevale rappresentava un forte stacco dalla normalità: contrariamente ad altri Carnevali tradizionali, a Sappada, era consentito loro partecipare in prima persona alle mascherate, sebbene non tutte le famiglie lasciassero andare le ragazze. Nel secondo dopoguerra, inoltre, la presenza delle donne nelle mascherate e ai balli non era vista di buon occhio dall’Azione Cattolica, tanto da comportare l’espulsione dall’associazione di chi vi aveva partecipato.

Rigoroso era, anche a Sappada, il divieto di partecipazione per i bambini, che erano spaventati dalle maschere e temevano soprattutto il Rollat, come si avrà modo di vedere in seguito.

Tutti potevano mascherarsi; non c’erano distinzioni legate al ceto sociale. Ma, così come accade ora, accanto a persone assai patite del Carnevale, ve ne erano altre che non se ne interessavano affatto. Alcune famiglie, di livello sociale più alto, snobbavano le mascherate; vi sono però anche testimonianze, riferibili agli ultimi anni dell’Ottocento, che raccontano di alcuni giovani di famiglie bene che andavano in maschera.

Nessun rituale particolare segnava l’inizio del Carnevale; semplicemente, si sapeva che era arrivato il momento per tuffarsi in un clima completamente diverso da quello abituale.

Invece, la fine del periodo carnevalesco era ben segnalata. La sera del Martedì grasso era abitudine che nella sala dove si svolgevano i balli passasse “l’uomo della cenere”. A mezzanotte, arrivava una maschera coperta da un mantello scuro, con una lanterna e con un sacchetto pieno di cenere che versava sul capo dei mascherati; spesso, si trattava di una persona che fino a pochi momenti prima aveva partecipato al ballo e poi era andata a cambiare il travestimento. Con questo gesto si concludeva il Carnevale; secondo alcune testimonianze, a questo punto tutti dovevano scoprirsi il volto, motivo per cui molti preferivano lasciare la sala in anticipo. Altri riferiscono che non fosse necessario, anzi, qualcuno proseguiva ancora nei balli. Anche qualche donna è andata a portare la cenere, coperta con un telo da fieno. Ancora negli anni Ottanta, qualcuno andava a portare la cenere, coperto dal bèttermòntl, il pesante mantello e con la lanterna; questa figura è stata riproposta anche nel Carnevale del 2007.

Qualche anziano, riportando i ricordi della propria madre, riferisce che a mezzanotte del Martedì Grasso suonavano le campane della chiesa, per segnalare l’arrivo della Quaresima.

Alcuni ricordano che, ancora una quarantina di anni fa, a Metà Quaresima c’era un breve ritorno del Carnevale; verso mezzogiorno alcuni uscivano per le strade e, travestiti, imitavano qualche paesano e non perdevano l’occasione per fare un po’ di baldoria. Non tutte le testimonianze concordano: secondo alcuni, in questa occasione non si usava la maschera sul viso e il Rollat non usciva.

La trasgressione del periodo comportava una smodatezza anche nel bere e nel mangiare e un diverso rapporto con il cibo. Mentre il resto dell’anno si mangiava con parsimonia e si faceva attenzione a non depauperare le scorte, Carnevale era l’occasione per mangiare e bere di più. E’ significativo che in sappadino il Lunedì grasso sia chiamato Vrèss montach cioè “Lunedì delle mangiate”, in cui vrèssn indica il mangiare degli animali e il mangiare smodato. Altrettanto interessante è che il Martedì Grasso, Schpaib ertach, sia indicato come il “Martedì del vomito”.

Quando le maschere arrivavano in casa, si offriva loro speck, pancetta, uova, ricottine, brodo. Si preparavano anche i dolci tipici delle feste: hosenearlan, le orecchiette di lepre, mognkropfn, le frittelle ripiene di semi di papavero, krischkilan, i crostoli, muttn, le castagnole, tutti dolci che una volta venivano fritti nello strutto, unico grasso allora a disposizione.

Come si è detto, non è facile riuscire a stabilire con una certa precisione le date che hanno segnato la storia del Carnevale sappadino.

Dalle fonti a disposizione, è possibile indicare gli anni Cinquanta come uno spartiacque tra due periodi: uno che va a ritroso, fino al momento in cui si perdono le tracce della tradizione carnevalesca e l’altro che arriva ai giorni nostri.

In questo arco di tempo ci sono stati periodi tragici, segnati in particolare dalle due guerre mondiali e dall’emigrazione, che portava uomini e donne lontano dalla famiglia. In seguito, è arrivata la trasformazione economica e lo sviluppo del turismo. Tutti eventi questi che hanno lasciato un segno nella comunità e, di riflesso, anche nel Carnevale.

I più anziani ricordano che si andava in maschera le ultime tre domeniche precedenti la Quaresima ma qualche buontempone usciva anche durante la settimana.

Il Carnevale consisteva nelle visite dei mascherati nelle case del paese, dove venivano accolti volentieri e si offriva loro cibo e bevande. Chi non gradiva la visita delle maschere veniva escluso, le volte seguenti, da questo rituale. Grande importanza rivestivano i balli nelle sale degli alberghi, proprio perché Carnevale rappresentava uno dei rari periodi in cui si poteva ballare. Tutti rammentano che una volta le mascherate erano meno organizzate: ci si accordava con qualche amico e si usciva la domenica dopo pranzo. Il Giovedì Grasso si faceva una mascherata con l’aiuto di carretti. Il Lunedì Grasso era riservato ai Rollatn. Negli anni Trenta, sappiamo che il Martedì Grasso era prevista nel pomeriggio un’adunata delle maschere nella borgata Palù, per la fotografia, poi un corteo fino a Cima e la sera il ballo nella sala del Dopolavoro. Risale a questi anni, il No Club, la gara sugli sci con regole tutte particolari.

Fondamentale era l’anonimato. Grande cura veniva posta nel nascondere ogni parte del corpo: il viso era celato dalle maschere lignee, le lòrvn, che sono trattate a parte.

Assai interessante, perché rimanda a tratti arcaici del Carnevale, era l’uso, molto frequente in passato, del velo per coprire il viso. In alternativa, si ricorreva ad una mascherina di cartone con un velo sottostante oppure la parte di viso che rimaneva scoperta veniva scurita. Il velo era molto usato dalle donne; gli anziani spiegano questa abitudine con il fatto che fosse meno faticoso tenere il velo piuttosto che la lòrve sul viso, per lungo tempo. Anche gli uomini utilizzavano il velo, spesso uno scuro, sistemato molto bene per non far trasparire i lineamenti. Secondo alcuni, però, gli uomini che si travestivano da donna preferivano la maschera di legno. A giudicare dalle fonti fotografiche, questa usanza era molto diffusa negli anni Trenta, ma qualcuno ricorreva al velo ancora negli anni Sessanta.

Alcuni mettevano il velo anche sotto la maschera di legno, per non far vedere gli occhi.

Il capo era coperto da un fazzoletto, così come il collo e le mani, che facilmente avrebbero potuto svelare l’identità, nascoste da spessi guanti di lana a manopola. Molto importante era anche non farsi tradire dall’andatura o da gesti caratteristici, da cui tutti avrebbero potuto riconoscere chi si celava dietro la maschera. Per confondere maggiormente, si modificava anche la fisionomia con cuscini e imbottiture e si cercavano scarpe della misura diversa da quella abituale.

Era consueto che le donne si vestissero da uomo e gli uomini da donna.

Fondamentale era non farsi riconoscere dalla voce. Un aiuto, in questo, lo fornisce la maschera di legno che, proprio per il modo in cui è scavata, fa rimbombare la voce; in più, l’attore deve riuscire a parlare in falsetto. A Sappada esiste il termine goschn, che oltre al significato di parlare ad alta voce e sbraitare, indica il modo di parlare in falsetto, proprio delle maschere.

Le maschere velate, ricorda qualche anziano, non parlavano[.

Il travestimento carnevalesco annulla completamente la persona; si assume un’identità diversa dalla propria che si deve riuscire a mantenere per tutto il tempo necessario. Grazie all’anonimato, era possibile regolare i conti, vendicandosi dei torti subiti, veri o presunti tali. In questo caso, le maschere quando si avvicinavano alle case cercavano di non farsi sentire per poter cogliere di sorpresa il proprietario. Chi sapeva di avere qualcosa da farsi perdonare temeva la visita delle maschere. Questa opportunità di vendicarsi nel periodo di Carnevale dei torti subiti non si ritrova solo a Sappada. «Occorre ricordare come il Carnevale fosse un tempo occasione non solo “di peccati di carne e di gola”, ma anche opportunità ideale per vendicarsi di torti subiti esercitando violenza su vicini e conoscenti nell’anonimato delle maschere»[.

L’essere un’altra persona consentiva una maggiore spavalderia nei rapporti con gli altri, soprattutto con gli anziani e le donne, e permetteva un comportamento diverso dal solito, fuori dalla norma.

Impersonare qualcun altro e non farsi riconoscere permetteva, inoltre, di organizzare gli scherzi, nelle case o nelle feste, che erano, e per molti sono ancora, uno dei divertimenti principali del Carnevale di cui si continuava a parlare per lungo tempo in paese. Molti uomini, mascherati da donna, erano così abili nel travestimento che spesso, durante le feste da ballo, riuscivano a far perdere la testa agli uomini, i quali chiedevano loro un appuntamento per potersi frequentare anche una volta finito il Carnevale. Molte di queste “donne”, per cavarsi dai guai e non far scoprire la loro vera identità, hanno dovuto escogitare rocambolesche fughe! E tutto questo è avvenuto fino a non molti anni fa.

Un sistema utilizzato da molti, per confondere le idee, era quello di cambiare più volte, anche durante la stessa giornata, il travestimento. Questo capitava spesso durante i balli; se si temeva di essere sul punto di venire scoperti ci si allontanava e si tornava con una nuova identità.

A Sappada, esistono due termini ben precisi per indicare rispettivamente la persona mascherata e la maschera che cela il viso. Nel primo caso si usa lotter, che significa partecipante alle mascherate, furfante. È indicativo che la parola che si usa per la persona mascherata significhi anche furfante, nel senso di furbacchione, in riferimento alla scaltrezza delle maschere. Prendiamo ad esempio alcune esclamazioni in uso a Sappada: Pischt a lotter / a lottrater! Sei un furfante!; Vòlscher lotter! Cattivo, falso! Nel secondo caso il termine è lòrve (tedesco Larve); ed è, anch’esso, molto significativo perché il latino larva indicava inizialmente “lo spirito cattivo e nocivo dei morti” che tormenta i vivi e li fa delirare come invasati. Già ai tempi di Orazio, larva significava maschera teatrale. Poi nel Medioevo, larvatus significa vestito della maschera o posseduto da un demone. Sostiene Toschi «È dunque dimostrato che, da più di duemila anni, tanto le anime cattive dei defunti quanto le maschere (comprese quelle teatrali) sono state indicate con la stessa parola».


Fontana [G. FONTANA, Addio vecchia Sappada] ci dice: «Solo le maschere mute non avevano successo. Sembrava che tramassero qualche atto proditorio: spia? delatore? creditore? Venivano lasciate in disparte con i loro cenci e paludamenti e non avevano seguito.». Ciò ci conferma la presenza di maschere che rimanevano in silenzio; non sappiamo, però, se questo giudizio negativo riguardasse solo alcune maschere mute o tutte. A giudicare dalle fotografie e da quello che riferiscono gli anziani, le maschere velate sembrano ben inserite nei gruppi mascherati e non isolate.[